27.9.09




Con tutti gli occhi vede la creatura
L’aperto. Soltanto i nostri occhi sono
Come rivolti indietro e messi intorno ad essa come trappole, intorno al sua libero fine.
Quello che c’è fuori, noi lo sappiamo solo
Dal viso dell’animale; noi già voltiamo
Il bambino e lo costringiamo a vedere all’indietro la forma, non l’aperto, che
È così profondo nel volto dell’animale. Libero dalla morte.
Noi solo lo vediamo; il libero animale
Ha sempre il tramonto dentro di sé
E davanti a Dio, e quando vaga, vaga
Nell’eternità, così come vanno le fontane.
Non abbiamo mai, neanche un solo giorno,
lo spazio puro dinanzi a noi, nel quale i fiori
s’aprono infiniti. Sempre è mondo e mai
il Nessunluogo senza il Nulla: la purezza,
l’incostudito, che si respira e si sa infinita
e si brama. Quando si è bambini ci si perde
nel silenzio una volta e si è sconvolti. Oppure
quello muore ed è.

Ma vicino alla morte non si vede più la morte
E si guarda fissamente fuori, forse con grande
Sguardo d’animale.
Gli amanti, non per altro forse, sbarrerebbero
Lo sguardo, e vicino a questo stupirebbero…
Come per svista è a all’uno aperto l’altro…
Ma oltre lui nessuno va, e di nuovo il mondo
È per lui.
Rivolti sempre alla creazione, noi vediamo soltanto di lei l’immagine riflessa di un atto
Libero, da noi oscurata. O che un animale,
uno muto, sollevi quietamente lo sguardo
verso di noi.
Questo si chiama destino: essere di fronte
E nient’altro che sempre essere di fronte.
Ci fosse come in noi coscienza
nel sicuro animale, che ci attrae
in altra direzione -, ci condurebbe
intorno al suo cammino. Ma Essere
è al suo essere infinito, puro e senza sguardo
Al suo stato, così come il suo guardare.
E dove noi vediamo il futuro, là egli vede
Tutto e sé nel Tutto e salvo per sempre.

Ma nel vigile caldo animale è
Il peso e l’ansia di una grande melanconia.
Perché a lui sempre rimane incollato quello
Che spesso ci soverchia, - la memoria,
come se ciò verso cui si tende, fosse già stato,
da poco accaduto, più fedele ed il suo ricordo
infinitamente dolce. Qui è tutto lontananza,
e là era respiro. Dopo la prima patria, la seconda per lui è disarmonica e ventosa.
Oh felicità della piccola creatura,
che sempre resta nel grembo che la portò;
Oh fortuna della zanzara, che sempre saltella,
quando è tempo di nozze: perché grembo è Tutto.
E guarda la sicurezza a metà dell’uccello,
che quasi sa la duplice verità della sua origine,
come fosse l’anima di un Etrusco,
di un morto, che uno spazio accolse,
ma con la calma figura come coperchio.
E come è allarmato uno che deve volare
E proviene da un grembo. Come dinanzi
A se stesso
Sbigottito, taglia l’aria, come un’incrinatura
Va attraverso una tazza. Così l’orma del pipistrello lacera la porcellana della sera.

E noi: spettatori, sempre, ovunque,
rivolti al tutto e mai al di fuori!
Ci sovrasta. Noi ordiniamo il tutto. Esso cade a pezzi.
Lo riordiniamo e cade ancora a pezzi.

Chi ci ha rivoltati così in modo
che qualsiasi cosa facciamo, siamo
nell’atteggiamo di uno che va via? Come quello che
sulla cima dell’ultima collina, che ancora una volta
gli mostra tutta la valle, si volta, sosta, si trattiene-,
così noi viviamo e sempre prendiamo congedo.

Ottava elegia, Rainer Maria Rilke

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